Elisabetta Baracchi

Infermiera

 

“L’unico appiglio erano i tuoi occhi e l’espressione che trasmettevi”

“Mi chiamo Elisabetta Baracchi, ho quarantasei anni, lavoro in questa azienda da dicembre 2005 e ora sono nel reparto di Ortopedia/Traumatologia. Sono infermiera, mi occupo di assistenza ai pazienti, in questo caso con fratture, e mi piace tantissimo questo lavoro, l’ho scelto a un’età un po’ avanzata, ho iniziato quindici anni fa.”

“Le parole che mi vengono subito in mente rispetto al Covid-19 sono: “paura”, “solitudine”, “tristezza”, “sconosciuto”, però anche la parola “forza”, che è stata la cosa che mi ha fatto andare avanti nei mesi proprio brutti. Dico “forza” perché, a parte la paura iniziale, l’angoscia di inizio turno, è stata proprio una caratteristica mia, e credo anche dei miei colleghi, questa forza che ci sosteneva, una condivisione più che altro, che ci ha permesso di vivere questo periodo bruttissimo in maniera meno drammatica. Parlando della solitudine, mi riferisco sia alla mia che a quella dei pazienti, che erano praticamente soli: noi eravamo l’unico mezzo sia di comunicazione che di relazione con l’esterno, con i parenti. Per me “solitudine” perché mi sono isolata dai miei genitori, dai miei nipoti che amo tantissimo, da amici e compagno… ho amato la tecnologia come mai prima d’ora, amavo le videochiamate, il tablet, tutto ciò che poteva rappresentare una relazione con l’esterno; non ho un abbraccio con i miei da quattro mesi, e anche con gli amici ho questa diffidenza nell’avvicinarmi e nel contatto, a me manca tantissimo.”

“A lavoro ci mettevamo questa “corazza”, l’unico mezzo di espressione nei confronti di colleghi e pazienti erano gli occhi: con gli occhi si rideva, ma mi è capitato anche spesso di piangere. La vita è cambiata completamente, si è creata questa distanza, questa barriera che non è naturale. La paura è un sentimento che io non ho mai avuto facendo questo lavoro e che adesso invece ho. La cosa positiva è che, verso la fine del periodo brutto, c’era anche una grande soddisfazione nel vedere andar via i pazienti, ogni dimissione per noi era una felicità! I momenti peggiori sono stati quando perdevamo le persone o quando vedevi pazienti soli e tu eri l’unica persona che poteva aiutarli, farli interagire con l’esterno; facevi la videochiamata, davi la mano con questi benedetti guanti, ne avevamo due paia su ogni mano, eri come mascherato! L’unico appiglio che avevi erano i tuoi occhi, l’espressione che trasmettevi, se piangevi cercavi di non farti vedere… e i momenti peggiori erano quando le persone purtroppo si spegnevano e la comunicazione con i familiari era un momento bruttissimo: non sei mai pronto a dare certe notizie! Uno dei migliori è questo: un pomeriggio mi ricordo di questo paziente sui sessantacinque anni, che è uscito dalla stanza e si è recato alla porta, contro il vetro, e c’era la compagna fuori che non poteva entrare. Entrambi hanno messo le mani sul vetro, proprio come contatto, poverini, lui le ha detto: “Ti amo” e lei ha risposto: “Ti amo, ti aspetto”, tutti e due piangenti, io con le mie lacrimone, però è stato un momento “bello”. Mi ricordo lei: occhi azzurri, questo pianto di disperazione, però di speranza nello stesso tempo! Poi con i pazienti ormai esisteva un rapporto, sapevano il nostro nome perché noi li scrivevamo sul camice e ti chiamavano: “Betty, Betty…” e me li ricordo ancora alcuni, ti rimangono nel cuore.”

“Quando si è scatenato tutto, c’era tanta tanta paura e in un certo senso ho invidiato chi poteva stare a casa, però è durato poco. Noi è dal 6 marzo che abbiamo riconvertito il reparto, i primi giorni ovviamente eravamo terrorizzati, perché era sconosciuto questo virus; però proprio aver pensato: “Avrei voluto fare un lavoro diverso” non è mai successo. Mi è subentrata una forza che mi ha permesso di andare avanti come un treno. Era dura: questo camice caldissimo, la tachicardia, l’ansia, la mascherina, però una volta che iniziavi: basta, entravi nelle stanze e ti passava, come se fosse giusto così…”

“Io per il futuro mi aspetto un ritorno più o meno alla normalità. Mi aspetto che un domani, quando ci sarà un vaccino che tuteli magari le persone più a rischio, si possa tornare a una vita normale con le persone care; ci stiamo un po’ abituando, ma è brutto. Prima davamo tutto per scontato: un abbraccio, una stretta di mano… e invece non lo è, non lo è…”

“Una frase positiva? Ne siamo usciti più forti, sicuramente, ho imparato anche a convivere con la solitudine, si è creato uno spirito di gruppo fondamentale. Ci confrontavamo, ci davamo forza… i turni più duri e difficili erano le notti, perché nelle notti c’èra il silenzio, che mi faceva ancor più riflettere… La positività di questo periodo è stata la forza dell’équipe: non c’era distinzione tra medici, infermieri, coordinatore, primario, eravamo un tutt’uno, lottavamo per la stessa cosa: aiutare queste persone. Non siamo mai stati lasciati da soli dalla Direzione. E poi una cosa per noi molto importante è stata ricevere i gesti di solidarietà dalla gente: la mattina arrivavano per noi brioches, pizze, le Colombe e le uova nel periodo pasquale: la gente ci faceva capire che era con noi, ognuno di loro ci regalava qualcosa per farci sentire la propria gratitudine, vicinanza, forza. In questo periodo di buio e tristezza è stato rincuorante il fatto che ci abbiano ringraziato, fatto sentire importanti. Il periodo che abbiamo passato sicuramente io non me lo dimentico più, i ricordi sono chiari e nitidi, come se fossero successi ieri. Saranno indimenticabili, purtroppo. O per fortuna.”

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