Dirigente di primo livello della Chirurgia – Pronto Soccorso Ospedale San Carlo
“Questo è un posto amato e odiato, proprio alla Catullo: ODI ET AMO”
“Mi chiamo Maria Grazia Vantadori, sono un Dirigente di primo livello della Chirurgia, lavoro prevalentemente in Pronto soccorso, sono assunta in questo ente dal 1993, ma ci sono entrata nell’83. Questo è un posto amato e odiato, proprio alla Catullo: “Odi et amo”, perché da una parte questa è un po’ la mia famiglia, non riesco a pensarmi altrove, sebbene sia arrivata a un punto in cui non ce la faccio più… io quest’anno compio sessantuno anni! Io ho deciso di fare il dottore a sette anni, da follia… Con tutti che mi dicevano: “Ma no, ma perché?…” In questo mio percorso, sono assolutamente grata al San Carlo perché mi ha avvicinato alla realtà femminile e lì ho scoperto un mondo, che non era esplorato in assoluto, “sentendolo” però… Io sono nata di sinistra e femminista, sono fatta così, che ci devo fa’? Con questa fisicità e con questa mentalità mia, questa è la mia strada, quindi non vedo l’ora di andare in pensione per potermi dedicare a tempo pieno a questo! Infatti da una mia idea è nato CASD (Centro di Ascolto Soccorso Donna), che raduna sia la realtà delle donne immigrate, che hanno un’équipe a parte, sia l’équipe di maltrattamento e io sono in quest’ultima. Questa cosa è stata riconosciuta anche a livello nazionale, ho fatto parte del tavolo tecnico per le linee guida.”
“La maschera è un mezzo potente perché se da una parte ci salva, dall’altra ci nasconde e secondo me questo messaggio che voi volete dare è importantissimo, anche perché la maschera ha isolato parecchio gli operatori che erano in prima linea a lavorare. Io ho lavorato in un reparto Covid, però non me la sento di dire che ero in prima linea sul Covid: io ero in Pronto soccorso, smarrita per quello che stava accadendo… Quando si parla di Covid si pensa sempre a qualcosa di respiratorio, ma è l’epifenomeno di quanto accade, perché effettivamente quello che accade credo che ancora nessuno lo sappia… Anche io mi sono poi ammalata e ricordo che stavo male in un modo innaturale, non era un’influenza, c’è qualche cosa che non funziona, da non reggermi letteralmente in piedi! Un sabato dovevo far la notte, sono andata a dormire all’una e mi son svegliata dopo tre ore con quaranta di febbre, non respiravo. Questa maschera, tornando un po’ al discorso di prima, da una parte rappresenta la salvezza, ma rappresenta anche il nascondersi da parte di chi dovrebbe avere più responsabilità. I nostri emergentisti e rianimatori avevano fatto una lettera interna in cui dicevano che si ritrovavano eticamente in difficoltà nel dover fare delle scelte. Si è creata una bagarre mediatica che è una fandonia a tutti gli effetti, perché è fisiologico e naturale, e in medicina si fa da sempre, che ci sia una scelta terapeutica: si chiama “olo”, oltre – limite – operatorio. Vuol dire che se tu hai delle chances per tirar fuori i pazienti, ti ci butti e fai di tutto, altrimenti diventa accanimento. Invece questa cosa è stata cavalcata malamente, strumentalizzata politicamente e questo fa male, perché è sulla pelle della gente, poi si perde credibilità! Siamo passati da essere gli eroi a quelli da prendere a pugni… La conoscenza è potere, davvero, però bisogna saperlo anche usare, e molte volte il potere non è stato usato in modo corretto.”
“Il ricordo peggiore… questo ammasso di corpi, queste scelte, questa incapacità di capire che cosa stava succedendo e questa incapacità anche di dare delle risposte. L’isolamento… Le cose che mi porto nel cuore in particolare sono… la solitudine degli anziani, la paura, l’essere lucidi fino alla fine… l’aspettare un gesto di pietà da parte di qualcuno che, con un tablet o altro, ti mettesse in connessione con la vita, la rabbia di vedere la negazione da parte di molti, l’indignazione di sentire, ora, paragonare la dittatura sanitaria alla deportazione, alla Shoah: una bestemmia che non si può sentire, non si può! L’isolamento delle nostre donne, che a casa hanno vissuto ancora più violenze, i bambini che assistono a queste violenze, che hanno perso la loro quotidianità e capacità di aggregazione. I bambini non sanno relazionarsi… La scuola è il primo momento in cui uno ha autonomia ed esce, il gruppo è importante per una crescita serena: il bambino deve imparare a crescere, diventare un ragazzino, incontrare dei pari e insieme a loro abbandonare la famiglia. Ecco, tutta questa cosa è saltata. Come saranno questi ragazzini, che adesso non sanno neanche loro chi sono e che cosa devono fare? Questo è terribile… Il momento bello è quando puoi aiutare qualcuno, com’è accaduto, a scappare da una situazione del genere, quindi: il ricovero della donna con i propri figli, la messa in sicurezza, vedere che almeno loro ce l’hanno fatta, almeno temporaneamente… Poi è una goccia nell’oceano, ci sono sentenze dei giudici che gridano vendetta al Cielo! Bisogna avere fiducia nella giustizia, ma… posso dire? È un boccone amaro da mandar giù, a volte!”
“Ho vissuto l’inadeguatezza, il sentirmi sempre insicura anche su cose già testate… Mio figlio, che lavora in Croce Rossa, in quel periodo l’hanno mandato a Bergamo, quindi un’angoscia, e mia figlia che invece è un ingegnere ambientale era chiusa in casa… Quindi in questa realtà erano tutti schizofrenici, anche il cane dava i numeri, non sapeva come gestire la situazione…”
“Per il futuro mi aspetto… un’altra ondata… non abbiamo imparato niente! Spero veramente che la vaccinazione sia in grado di fare la differenza, però fino a quando il virus, che adesso è quiescente, non si rifarà vivo a ottobre/novembre… quello sarà il momento “vero”, perché la prima ondata ci ha colto all’improvviso, la seconda era inevitabile, questa terza sarà veramente il banco di prova. Sapete cosa mi risulta strano? Facciamo di tutto per vaccinare i nostri cani, gatti, e adesso che invece dovremmo noi, dalla base, dare delle risposte, ci mettiamo in discussione con un’arroganza: “Io so”… no, dovremmo ripartire tutti da capo: “io so di non sapere”, la natura l’abbiamo rovinata, è colpa nostra.”
“Un motto positivo… Io direi: viviamo il momento e cerchiamo di imparare il più possibile, e se fossimo appena appena un po’ più empatici l’uno con l’altro… eh, questo sarebbe un messaggio sicuramente di speranza, perché soltanto aiutandoci a vicenda possiamo superarla questa cosa, da soli non si va da nessuna parte: siamo una collettività e a volte ci dimentichiamo di esserlo. Ritroviamo la nostra umanità nella collettività e ognuno faccia la sua parte: allora sì che andrà tutto bene!”